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Il livello intermedio del Tantra

Assistere al dissolversi dell’io per riscoprisi l’ātman, al quale con le parole dell’ultimo Heidegger ci si può riferire secondo la cadenza “l’ātman è l’ātman più un io”.  

Questo e non altro è il chidākāsha dhāranā del Tantra (almeno per alcuni yogīn operativi, costituendo per altri questa figura una semplice modalità della concentrazione). Ovvero affresca “l’ātman è l’ātman più un io” l’ingresso nel regno così introdotto nel Ṛgveda dei trentatré splendenti dèi: “due Uccelli, eterni amici, stanno insieme sul medesimo Albero; uno d’essi mangia la dolce bacca, mentre l’altro, senza cibarsi, il suo compagno osserva”.

Ho appena esposto quello che è il Sanātana dharma per come mi pare di aver inteso lo si possa legittimamente miniaturizzare; queste tre proposizioni, summa di Vedanta, Tantra e Ṛgveda, sono sufficienti ad illustrarlo nel senso che le migliaia di testi che rifraggono il Sanātana dharma sono appunto modi di chiarire questo nucleo enigmatico (Vedanta e Tantra paiono “sistemi” tra loro diversi solo a livello davvero superficiale: l’ātman, parola chiave del Vedanta, si raggiunge, nella via breve, grazie a Kuṇḍali, che è la parola chiave del Tantra; nelle Upaniṣad, che costituiscono appunto il Vedanta, l’espressione più ricorrente dopo Brahman è prāṇa, e dire prāṇa significa dire Kuṇḍali — ad esempio Swami Śivananda Saraswati ripete spessissimo che il Vedanta indichi il “fine” e il kuṇḍalinī-yoga il “mezzo” —; e a loro volta le Upaniṣad sono il commento, riservato agli adepti come appunto significa il loro nome, del Ṛgveda). 

Questo nucleo sintetizzato nel detto “l’ātman è l’ātman più un io” è lo snodo decisivo nel progredire in ogni yoga, al di là delle immagini e dei nomi che le singole dottrine vi assegnino; è uno snodo intermedio, una fase la cui realizzazione è tanto istantanea quanto infinitamente laboriosa perché la si realizzi davvero, infine paradisiaca come infernale è l’assistere all’esasperante creparsi e poi polverizzarsi dell’io. Questa fase nei termini dell’Alchimia è lo stabile stazionare nella compiuta albedo (l’opera al bianco), propedeutica alla quale è la nigredo (l’opera al nero), l’uccisione dell’io appunto, e prosieguo naturale la rubedo (l’opera al rosso), la tintura. L’opera al bianco dell’Alchimia è propriamente l’espansione di una qualche luce interna alla mente, così come l’espansione di una luce interna alla mente è il momento cruciale del Tantra e di ogni dottrina esoterica effettiva e di ogni esperienza non-rappresentativa, per come effettivamente descritta in tutti i testi sacri e rivelati ed anche al di fuori dei reami della Scienza Sacra, in forme le più diverse. La luce illumina l’antro della caverna, che per le dottrine segrete è tutto fuorché una metafora; questa luce sono le go, le vacche-di-luce che i veggenti rigvedici pregano Agni faccia loro trovare nel cuore della nera montagna, ed è la luce che Kuṇḍali in Ājñā-cakra fa esplodere come milioni di lattei soli, è la chiara luce del Buddhismo tantrico e la luce celeste della Qabbalah.

Non si tratta di precisare che ciò, e quanto segue, sia elaborazione logica e comparata delle porzioni dei Tantra che gli accademici ed i lettori occidentali derubricano ad autosuggestione, o residui tribali; queste porzioni mistiche sono quelle che i Tantra stessi definiscono, per dirlo in termini aristotelici, la sostanza, laddove i cattedratici si occupano di analizzare le restanti porzioni che gli yogīn considerano accidentali.

Nemmeno va da sé si tratta di porsi la domanda se tutto ciò possa essere vero o no, ma di constatare che le diverse esperienze mistiche dell’“altra parte” descrivano non solo codesta irradiazione di luce interiore ma anche il dimorare nel quietato irraggiamento della luce in termini inesorabilmente identici, il che è certamente una coincidenza assai curiosa che raramente è colta nella sua essenzialità dagli studiosi o dagli appassionati delle singole dottrine esoteriche. 

Ebbene questi termini si risolvono tutti in una condizione mentale sola ed identica — perché appunto una cosa sono i mezzi altro i fini — la quale pur se detta in diversi accenti può essere scarnificata in una parola sola, una parola che è stata ed è uno dei gangli cruciali del pensiero occidentale, tutti, filosofi, santi e scienziati essendosi su di essa a lungo e invano interrogati: il tempo.

Forse la più alta vetta della poesia è la locuzione che tante volte Akhenaten rivolge alla sua Nefertiti, “giovane in eterno”. 

Questa espressione per quanto non la si possa dire propriamente ricorrente nei testi rivelati, talora appare, hapax legomenon, finché non ci si rende conto del fatto che la “struttura a-strutturale” della realtà autentica oltre il velo della rappresentazione come detta dai testi rivelati è l’“essere al di fuori del tempo”, ossia appunto l’essere “giovane in eterno”.

Il Vajrayāna, il veicolo del diamante o del fulmine, ossia il Buddhismo tantrico di Tibet, Nepal e Bhutan, monacale o ngakpa, ha come momento intermedio decisivo il raggiungere lo stato di “Buddha dei tre tempi”, ovvero, come è spiegato, il ritrovarsi al di fuori dal plesso costituito da passato, presente e futuro. Da ovunque, dalle correnti śivaite ai devoti alla Dea Kālī (“la distruttrice del tempo”), dalla Qabbalah alla Alchimia, è detto ciò, tant’è vero che Wagner fa rispondere da Gurnemanz a Parsifal che chiede cosa sia il Graal “Zum Raum wird hier die Zeit”, qui il tempo diventa spazio. Con grande frequenza nei testi esoterici orientali ed occidentali si legge del “ringiovanimento” o della immortalità in vita: questa non è una contraddizione in termini, ma è detta essere la realtà, la morte esiste certo ma è una costruzione teoretico-causale, ovvero pertiene all’io.

Come si può intendere in termini occidentali l’essere al di fuori del tempo? Ed anzi, si può ciò concepire secondo le categorie razionali?

In primo luogo, l’essere al di fuori del tempo nulla ha a che fare con la quantistica e le sue proprietà, con la relatività, le stringhe e futuri concetti attingibili dalla mente calcolante; si tratta di mondi opposti: la fisica in qualunque modo intesa è come tale l’opposto della vacuità.

In secondo luogo vanno evidentemente ignorate a piè pari le disparate nozioni filosofiche, da Platone a Kant a Bergson, perché se mai alcuno fosse riuscito a esprimere in parole significanti cosa avesse inteso della realtà autentica, ciò tuttavia sarebbe già stato irrimediabilmente corrotto nel sequenziare immagini pre-teoretiche o loro brandelli in concetti.

In terzo luogo va ignorato altresì ciò che sia detto per empatia, tanto da psichiatri, psicanalisti, pazienti o persone sotto effetti psicotropi, quanto da psuedo-esoteristi o da invasati — il Sanātana dharma è vidyā, conoscenza (pre-concettuale id est non-astratta, effettiva), come tale va considerato e semmai, dopo, criticato, naturalmente in base al suo proprio logos

Il dire che l’ātman è l’ātman più un io è lo stesso che dire che il tempo non esiste come tale: una mente in tale natura perfezionata continuamente plasma il passato e vede dal futuro, perché non è vetrificata in un presente — è questo in concreto che promettono i Tantra e testi affini. La questione sta qua: non è “pensare” di plasmare il passato o vedersi dal futuro, questo è un dire le cose in termini che appunto presuppongono passato, futuro e presente; bensì è “essere” (“essere” nei Tantra è solo una parola, vuota e insignificante come le altre) in una condizione dove le azioni (Kárman) generano effetti al di fuori di schemi temporali sequenziali. La sincronicità di Jung non ha nulla a che fare con la temporalità tantrica, per Jung sincronicità significa che eventi accadono al di fuori di un razionalmente accertabile nesso causale, questa la sostanza di cosa in effetti espone Jung mentre dice che l’inconscio non soggiace a spazio e tempo “sì che” accadono eventi paralleli, ovvero Jung invoca la a-temporalità, ma i fatti sincronici sempre nel presente accadono; ed è semmai cosa viene posto ignoto all’io, il quale io sempre titanicamente c’è ed “è”, a vedere gli eventi, invece lo yogī sta nella natura della mente alla quale è giunto per l’aver “sacrificato” l’intero proprio io (conscio, inconscio e quant’altro) ad Agni — così dice il Ṛgveda, certo non per chi legga, come i bramini vedici (i sacerdoti, cioè non-veggenti, post-rigvedici) e poi tutti, che lo yajña sarebbe il “sacrificio” e consisterebbe nel versare un cucchiaio di solido burro chiarificato nelle fiamme di un fuoco: yajña significa nei vocabolari anche “adorazione”, ma vuole dire “yoga”, lo yoga puro si può dire, dove l’io non viene “sacrificato” ma semplicemente si scioglie, sacrificarlo lo si deve, rectius al suo “sacrificio” si è costretti inorriditi ad assistere, se esso sia dato per esistente come totalità ed essenza dell’individuo, mentre se si sa che è finzione, lo si mette da parte. La psicanalisi suppone che l’inconscio sia un ente che rapisce, travia, deforma pensieri nell’io conscio costringendolo a fare questo invece che quello, ma i pensieri traviati dall’inconscio cosa sono se non appunto pensieri? Se si muove dalla evidenza che la mente è i pensieri, l’inconscio è una fonte di pensieri, al più, così come fonte di pensieri è il vedere una brocca, o essere colto da febbri, o il calcolare varianti; se si ritiene a priori che la mente sia il conscio, l’inconscio ne è fuori, o se vi è dentro ne è separato: questo è anche vero, ma lo è solo appunto nella evidenza dell’io titanico, se invece si adotta l’evidenza della “natura della mente”, l’inconscio chiaramente rimane ma è come dire un io mascherato tra tanti vestiti uguali, è pensieri di natura particolare, ma è pensieri. Da quando nel mondo occidentale si sono affermate le psicanalisi, gli yogīn hanno precisato che codesto ente detto inconscio sia riguardato nei testi rivelati da millenni, non nominato perché è appunto una fonte di pensieri tra le tante che ci sono — gli yogīn non sminuiscono l’importanza dell’inconscio, a livello patologico e a livello metafisico, ed anzi affermano che lo sguazzare indenni in questo nero mare per uscire sull’altra riva sia prerogativa di pochissimi (viene in mente un celebre detto del Buddha: quando per attraversare un fiume si utilizzi una zattera, poi non ce la si porta in spalla ripreso il cammino, ma la si lascia sulla riva per chi a sua volta debba attraversare il fiume), nonché adottano da sé spontaneamente tra le altre quella modalità che Freud e Jung dicono transfert, solo attuandola in modo integrale e non limitato a casistiche e tecniche coatte. 

Se passato, presente e futuro sono categorie della mente calcolante prese come evidenze a priori, di conseguenza si sta in esse e non si può nemmeno concepire il violarle perché sono appunto date come strutture ultime della realtà; ma se ci si ritrova in un altro tipo di struttura della realtà in cui queste categorie non esistono, esse non esistono, e le stesse parole di passato, presente e futuro restano solo nomi. 

Ciò che va chiarito da subito è che la buddhità o jīvanmukti, la liberazione durante la vita, non implica la negazione del tempo, ma implica che il tempo sia vissuto al di qua della sua comune apprensione sequenziale; a non esserci non è il tempo in sé, ma le sue categorie di passato, presente e futuro — che ciò voglia dire “eternità” dipende da cosa si intende per eternità: parlare di passato, presente e futuro ha certo senso, perché tutti vivono secondo questi tre tempi, tutti li esperiscono quotidianamente, ma qualcuno ha mai esperito l’eternità, o piuttosto essa è sempre e solo stata posta come astrazione concettuale, come una parola che in effetti non è nemmeno pensabile dalla mente razionale? 

Il tempo è creduto essere sequenziale a causa della rappresentazione, così come è la rappresentazione che sequenzia la realtà in mente e materia, in io e realtà esterna all’io. Il meccanismo è esattamente lo stesso: la rappresentazione crea enti, isola porzioni del tutto e le pone come indipendenti dicendo che “sono”, che esistono in sé; la rappresentazione così come crea le nozioni di soggetto e oggetto, allo stesso modo crea le nozioni di passato, presente e futuro. Che cosa è la rappresentazione? Heidegger dedica al mostrare la autoreferenzialità e falsità intrinseca della rappresentazione tutta la sua opera, in termini teoretici e pre-teoretici; per le dottrine esoteriche da sempre la rappresentazione è ciò che va superato per riscoprire la vera natura della mente (che viene detta a seconda delle dottrine ātman, “natura della mente”, rigpa, anātaman, Śiva). Naturalmente la rappresentazione per dirla bisogna vederla, e vederla non può chi vi si trovi immerso, evidentemente come un insieme racchiuso in un insieme non può comprendere l’insieme che lo comprende: i greci pre-aristotelici dicevano spesso che il corpo è la tomba della mente, e lo stesso dicono i Tantra e le dottrine esoteriche all’unisono; l’essere la Coscienza immersa nella materia genera in essa la credenza che la coscienza stessa soggiaccia alla materia, tutto qua, ergo la mente da immacolata si lascia ingannare e crede che gli oggetti siano “enti” intrinsecamente indipendenti e crede di essere un “io” a sé, restando offuscata, obliata, da disvelarsi, dimenticata la natura elementare della Coscienza. Questa avidyā, l’ignoranza della vera natura della propria mente, non è da nessuno mai detta una colpa; è inevitabile che accada così, i maestri spirituali ciò che dicono è solo che con un po’ di fortuna è possibile che talune menti invece che altre riescano a rendersi conto della semplice realtà che sta sotto il naso, ed è chiaro che il mettersi in una tale prospettiva sia doppiamente difficile per gli occidentali che da millenni in perfetta buona fede vivono tumulati in sarcofagi di abitudini mentali. 

Tutto ciò non può essere pensato, figurarsi capito. È proprio questo che induce i più a deridere il Sanātana dharma: sarebbe ridicolo perdere tempo per cercare di superare la ragione che sarebbe un inganno, perché la (propria) ragione è vera. Il rifiuto del Sanātana dharma si fonda su una petizione di principio; ma che ci possono fare gli adepti se non ci si rende conto che il pensiero rappresentativo come tale fu appositamente pre-confutato al suo apparire, tra gli altri da Zenone di Elea — se la ragione non può nemmeno comprendere la natura delle più elementari evidenze che ordinariamente pur vive (come il movimento), come si può pensare che debba essere il metro di giudizio della realtà?

A “pensare” è infatti la mente ordinaria, un io, e l’io è i pensieri; e la ragione (o ciò che il pensiero occidentale intende per ragione) è il nome che l’uomo ordinario dà a quello che crede il proprio io quando si persuade, va da sé in modo puramente autereferenziale a fini consolatori, che quel fascio di pensieri che gli piacciono siano particolarmente validi. L’agire ordinario si fonda sulla diffidenza, sulla riserva mentale, e quindi sulla falsità, sull’inganno; questa non è una critica, men che meno morale, ma è una constatazione psicologico-esistenziale elementare: il linguaggio ordinario è fallace, cosa uno intenda l’altro non può intendere, perché il mezzo di comunicazione è inadeguato a rispecchiare i pensieri, anche a prescindere dai toni e sottotoni, e i pensieri a loro volta sono non comunicabili né come tali né nel loro intero quanto a premesse e implicazioni, ma solo per estrema sintesi; il che significa equivocabilità inaggirabile, la quale appunto genera diffidenza e falsità come matrice della mente ordinaria. Tutto ciò discende dal fatto che non si capisca la realtà, perché se di una cosa si hanno solo rappresentazioni e concetti è in ciò connaturato che se ne sappia solo una apparenza (uno vede un albero, ma nemmeno un botanico o un microbiologo sanno cosa sia un albero), e la realtà non la si può capire perché c’è una lastra che separa la mente dalla realtà, questa lastra è l’io ovvero la rappresentazione. Chi ignora la propria vera natura non conosce la propria mente ed è convinto di poter veramente conoscere l’esterno attraverso la propria mente, ovvero “crede di sapere”: è la struttura conoscitiva in sé ad essere fallace, il “cosa” si creda o non si creda è secondario; i pensieri sono, oltre che fatui, intrinsecamente erronei in quanto rappresentazioni, si ignora ciò che si crede di conoscere, si ignora che chi conosce è a sua volta falsante. Essere l’io, si è evidentemente compreso, non significa l’essere egoisti, non perché come notò tra lo stupore Nietzsche anche l’altruismo è solo una forma di egoismo (come la devozione religiosa peraltro), ma perché è la struttura biologica-cognitiva ordinaria in sé ad essere incentrata sulla propria esperienza e sulla propria conoscenza — sono millenni che anche nei testi dei filosofi occidentali, almeno in alcuni, si dà per ovvio che si può apprendere solo a partire da ciò che si sa: chi crede di essere l’io tutto all’io necessariamente non può che riportare. Ora, o di ciò ci si rende conto oppure no; si può semmai riportare l’ultimo inno del Ṛgveda: “Agni possente, qual Signore, tu ci unisci a tutto l’esistente; alto avvampi nella Dimora di Iḷā; conduci a noi tutti quanti i Tesori. Venite, adunatevi, enunciate un’unica parola; siano unite le vostre menti nell’unica Gnosi, similmente agli antichi dèi, che ottennero ciascuno la Porzione designata, raggiunta l’unitaria Conoscenza. Un mantra unico ottennero essi, in adunanza — un’unica mente e conoscenza unica; esprimo per voi l’unico mantra e porgo un’unica Offerta, in cui ogni vostra è compresa. Uniti in una sola aspirazione, tutti accordati in un unico cuore, con una mente unica, godiamo dell’intima unità fra tutti noi” (trad. T. Iorco).

La condizione tantrica al contrario implica come precondizione che l’io, ogni io dell’individuo, sia ricondotto al suo ruolo proprio di evanescente comparsa. Per il pensiero rappresentativo l’io è la totalità della mente conscia di veglia nel suo insieme: ogni pensiero, che scaturisca da noia, riflessione, apprendimento, ricordo, relazione, simbolo, contatto, intuizione, sensazione, emozione, inconscio, sogno e quant’altro è un elemento che costituisce l’io. Chiaramente parte dei pensieri convergono nel costituire la sostanza dell’io, la sua nozione metafisica e psicologia, mentre altri sono accidentali; ma appunto l’io è cosa disse Descartes, omnes cogitationes. Quando si dice che ci sono tanti io invece che uno solo si intende semplicemente che in ogni piano o situazione, o in ogni instate se si vuole, a occupare la mente conscia c’è un aggregato di pensieri: ogni aggregato di pensieri è un io, la cui natura dipende dalla natura e dalla origine dei pensieri che stazionano e si scalzano e sovrappongono senza che ve ne sia consapevolezza, se non eventualmente successiva, perché il nucleo dei pensieri che costituiscono il cuore dell’aggregato in essere resta quello che è, che le abitudini hanno forgiato (se invece a venire sostituito è il nucleo stesso dell’aggregato allora la mente è divisa, come appunto significa il termine schizofrenia). Ma appunto solo lo yogī può assistere allo spettacolo della danza dei propri io, laddove i “mortali” non vedono la natura plurale dell’io ed addirittura credono che la loro mente si esaurisca in quello che in realtà non è che una autosuggestione. Una riprova romanzata, ed inautentica, della pluralità degli io la diede Pirandello: non è tanto il fatto che ognuno sia tanti io quante le persone con cui si relazioni, bensì il punto è la implicata constatazione che le persone ordinariamente giudicano chi conoscono in base a cosa vedono lui dire e fare; ciò rivela la struttura mentale rappresentativa: poiché io sono io, lui è come mi appare sia, non passa nemmeno per la testa che ciò che si veda, conosca o legga di una persona siano i suoi io agenti, cioè pozioni di un io che, per quanto naturali, non possono in quanto porzioni di parti rivelare l’intero di cui sono espressione — non è tanto che ciascuno giudichi incessantemente gli altri a causa della morale, bensì il punto è che la struttura stessa della mente ordinaria è l’io che crede che ci siano persone cioè enti semplicemente pensanti esterni a sé, e ciò genera il giudicare (ovvero la morale è di genesi metafisica, ed è proprio questo che Nietzsche insegna per lo più confusamente, ovvero la “sua” morale è quella che Heidegger dirà la metafisica in sé).

Il fermare i pensieri, ovvero assistere alla loro autoliberazione spontanea come rivela Padmasambhava, è appunto il discrimine del superamento della soggettità, quella che il Filalete dice l’entrata aperta al palazzo chiuso del Re: se si fermano i pensieri, la coscienza non solo continua ma si ritrova nuda, come il cielo terso scevro di nuvole, l’io è sospeso e la mente è liberata, non ci sono enti, non c’è lo scorrere del tempo. Questo è secondo i Tantra uno dei momenti del progredire yogico, la realizzazione della vacuità (śūnyatā), che segue il risveglio di Kuṇḍali e normalmente si attinge in samādhi (assorbimento, che non è necessariamente estatico, se si intende questo termine come implicante deliquio). Da quel momento, che potrà ripetersi, la coscienza muta: non solo ha realizzato, grazie alla luce cagionata da Kuṇḍali, che l’io non è la sola energia coscienziale della mente, ma esperisce che l’io può temporaneamente cessare del tutto. La jīvanmukti è dapprima esperire che l’io non esiste in sé, quindi il lento implementarsi della pura natura della mente, l’ātman, nella vita stessa; ed è in questo progredire che si conoscono, si vivono, si “è” gli stati effettivi della mente, ovvero la mente come è cadute le false strutture. Ora, però, è bene puntualizzare sotto il profilo puramente espositivo, non è che si debba descrivere cosa non ci sia più e descrivere cosa e come si sia, perché si è cosa si è laddove i pensieri comuni appartengono a ciò che era e non è più; è pur certo vero che le analisi a posteriori siano necessarie al progredire stesso (esse costituiscono “discriminazione”, viveka, una modalità molto particolare della mente, il cui filo è assai difficile non smarrire), ma a condizione che non ci si fermi mai a nessuna di esse, questo è l’errore da tutti gli adepti additato, sarebbe in effetti un entificare.

L’ātman non è un io o un super-io, né un “Sé” come tragicomicamente sempre si traduce ingenerandosi ovvi fraintendimenti, ma non è che non sia anche individuale, essendo anzi propriamente la vera natura della mente; non è che lo yogī diventi l’ātman o sia solo l’ātman, né che lo avverta come esterno a sé, per quanto esso sia tanto esterno quanto interno alla mente nel suo insieme; né è che gli io cessino di esistere, cesseranno solo con la loro causa che è il corpo, solo che non sono più signori o soggetti bensì i modelli verso cui ciascuno è portato. Nella realtà della mente svincolata, è sostanzialmente detto, tutte queste condizioni, cioè ātman e io in varie proporzioni interrelati, si compenetrano al punto da poter constatare la loro compresenza — è evidente che qua i fondamenti della ragione, i principi di non contraddizione, di identità e del terzo escluso, non hanno luogo, ma è proprio letteralmente questo che dicono i Tantra, e nel pensiero occidentale Nietzsche, poeticamente, e Heidegger teoreticamente, un’altra logica, effettiva o no possono saperlo evidentemente solo gli yogīn, non i neuroscienziati e gli psicologi. Il chidākāsha dhāranā del Tantra, uno dei tantissimi stadi di mezzo descritti nei testi, è ciò: la parete interna della fronte è una finestra attraverso la quale “si” vede un io agire, diretto secondo i modi imperscrutabili dell’ātman

Chi o cosa è allora l’ātman in termini occidentali? Chi o cosa questo o questi io? Si può asserire come predicato sostanziale della mente perfezionata il plesso “ātman più io”? Se i Tantra rivelati affermano di non poter definire discorsivamente queste condizioni, a causa del fatto che il linguaggio discorsivo è sequenza di enti che rappresentano enti laddove la realtà pre-teoretica è non-sequenziale e non consta di enti, figurarsi se lo può il pensiero occidentale dove le parole sono cristallizzazioni di astrazioni presupposte (i testi rivelati sono stati pre-teoretici vergati in sequenze di parole che agli occhi di chi non vede quegli stati appaiono come discorsivi: “chi non conosce Quello, che può farsene di questi versi?” — Ṛgveda). L’ātman è una quota del Brahman, oppure un piccolo gruppo di disegnetti o emissioni vocali per chi quota del Brahman non sia; i testi esoterici sono indicazioni operative per raggiungere questi stati, sempre e solo, non sono testi descrittivi o concettuali: i Ṛṣi (poeti-veggenti) e gli yogīn (yogī è chi ottenne realizzazioni, i praticanti sono detti sādhaka, aspiranti) dicono e ripetono che la realtà autentica non è riducibile a concetti, e gli occidentali arzigogolano di scovare definizioni laddove Ṛṣi e yogīn indicano mete e mezzi usando parole, chi vive la realtà autentica non ha bisogno di leggere nessun testo a differenza di chi cerca la via, ma chi cerca la via daccapo se non sa che le parole sono solo parole resterà dove è.

Si legge spessissimo anzi praticamente sempre che non c’è alcun oggetto da conoscere né alcun soggetto che conosca. Questa frase non significa affermare che non c’è niente o che c’è un tutto (eternamente immoto o allucinatoriamente fluttuante a seconda dell’umore), tale aut aut essendo cosa la mente che rappresenta può inferirne; questa frase semplicemente e logicamente vuole dire che ciò che impedisce la comprensione effettiva (vidyā) è proprio la mente che rappresenta. Per avvicinarsi al Sanātana dharma è pregiudiziale sospendere la mente razionale ed imboccare l’“altro inizio” — i molti cultori di Heidegger decine e decine di volte hanno letto di questo “altro inizio, diverso dal pensiero rappresentativo fondato su soggetto e oggetto”, ebbene è questo, evidentemente perché Heidegger, come egli ripete decine di volte, si trovava nella Lichtung, nella radura rischiarata, non perché avesse letto Tantra o Veda, sì che non ci si deve stupire di come tutto il suo pensiero ruoti sul tentativo, speculativo, di ritrovare il senso autentico del tempo. L’al di qua della dicotomia tra soggetto e oggetto è propriamente  una dimensione di Coscienza che è quota della Coscienza che è la realtà, la quale realtà per ciò appunto cessa per lo yogī di essere convenzionale e diventa autentica. Dire che mente e realtà sono Coscienza non significa per nulla dire che stiano solo nella mente, significa dire che sono Coscienza; la realtà convenzionale “esiste” così come “esiste” la realtà autentica, sono fenomenicamente la stessa realtà, questo è ovvio e indubitabile nel Tantra: saṃsāra e nirvāṇa sono la stessa cosa dicono sempre i tibetani, che si ripete sono buddisti puramente tantrici, ma ciò è scontato anche per le diverse dottrine tantriche indiane, cambiano magari i termini in cui ciò è detto, se le espressioni discorsive tendono a usare parole “monistiche” o “pluralistiche” o “dualistiche”, ma un conto è la sostanza del Tantra, altro sono le espressioni in cui la sostanza è detta; poi chiaramente ci sono filosofie buddhiste o indù che dicono che i fenomeni siano solo mente, come la scuola Cittamātra, o Yogācāra, o certe correnti del Vedanta, ma appunto sono solo filosofie — non testi rivelati —, filosofie ovvero pensieri di chi crede di spiegare la realtà con la ragione non avendo accesso diretto alla realtà autentica. E tutto ciò, la differenza tra realtà convenzionale ed autentica, è poi quello che in tantissimi testi occidentali viene alluso, da alcuni con cognizione di causa da altri come stilema, con la formula “vedere faccia a faccia”, espressione anche paolina davvero tanto accattivante quanto però subdola: vedere faccia a faccia chi? Se si realizza per esperienza reiterata la risposta a questa domanda, allora si è intraveduta la realtà autentica — questo appunto è il fine intermedio del Tantra.

Ora si può avere più chiara la locuzione del “credere ai pensieri”. Essa non significa naturalmente voler asserire che ordinariamente le persone credano al primo pensiero passi loro per la testa; anche la riflessione, la meditazione, la concatenazione tra ipotesi e prova, il sillogizzare, l’inferire e il dedurre sono pensieri, così come l’intuizione, l’angoscia, la sofferenza. Il Buddha spesso ripeteva ai suoi monaci che non dovevano credere a cosa lui diceva, bensì, detto in termini occidentali, dovevano rendersi disponibili a riconoscere che ciò che lui diceva era già in loro (ed è a questo che si ricollega l’altro suo detto secondo cui cosa sia la realtà autentica non può essere spiegato a chi già non la sia e viva). Ai pensieri non è che si debba non credere a priori: il problema è l’“avere fede” che siano espressione verace della propria mente, e proprio ciò denuncia Socrate dicendo che erroneo in sé è il “credere di sapere”; il giudicare singoli pensieri logici o illogici, buoni o cattivi, veri o falsi è già solo momento successivo — e allora cosa?, ci si può chiedere, ma si sta parlando del livello intermedio del Tantra, che presuppone l’attivazione dell’ātman per effetto di Kuṇḍali, se ciò non accade si è succubi dei pensieri, i testi rivelati illustrano proprio ciò. 

I maestri e gli yogīn affermano da millenni che fede e ragione (nel mondo occidentale si chiamano così) sono strutturalmente identici: sono entrambi un “credere”, cambia solo la natura dell’oggetto della credenza, ciò che si vuole sperare nella fede, ciò che si vuole pensare per la ragione — se si vuole il mondo è davvero volontà e rappresentazione, ma appunto tale è il mondo delle persone che non conoscono la natura della propria mente. Il “credere” in sé è il portato della rappresentazione: vedi il mondo, pensi te stesso, vuoi sapere, non puoi capire, perché ciò che prendi per evidenza, il mondo e l’io, sono anche illusori, cioè sono veri come fenomeni ma non hanno esistenza intrinseca, ma tu vedi questi fantasmi nella nebbia e “per forza” credi ai fantasmi che vedi perché solo quelli vedi, e cioè credi a cosa ti dicono i pensieri intorno ai fantasmi, e ti dicono appunto che esistano intrinsecamente l’io e il mondo, ma questi pensieri sono già generati solo a partire dall’io e dal mondo (ecco il circolo vizioso della rappresentazione: è anche neurobiologico, certo, ma è “indotto”) — d’altra parte duemilaquattrocento anni di filosofie dovrebbero quantomeno far sorgere il dubbio che ciascuno può dire come verità cosa gli passi per la testa, come peraltro già avvertiva Protagora, grande sapiente. La Scienza Sacra non afferma che i pensieri siano erronei in sé, o che la ragione sia errata in sé, anzi yogīn e adepti molto spesso indicano come strumento valido per tentare di provocare il trovarsi fuori dalla rappresentazione proprio l’uso retto della ragione, ovvero il constatarne la autoreferenzialità (se si vuole l’antropomorfismo di cui parla Giametta a proposito di Nietzsche, solo che esso non esprime il fondo); solo che ciò che dicono gli yogīn non è cosa possono credere di sapere gli occidentali: scepsi, epochè e critica sono sono “credi” razionalistici anche quando si dubiti di essi, così come le singolarità e la falsicabilità sono le maschere dietro cui si nasconde la scienza. Portare la ragione alla constatazione della autoreferenzialità significa “sacrificare” l’io, è questo il dio che si deve alfine abbattere, solo che l’io è un dio più che geloso davvero ossessivamente psicotico perché crede di essere l’individuo stesso nella sua essenzialità, come infatti ciascuno, anche il più depresso o disfattista, è assiso sull’intrinsecamente reputarsi il centro dell’universo: è questa la rappresentazione, il vedere dal proprio punto di vista, il pensare i propri pensieri. Questo è il discrimine che segna l’ingresso negli yoga: l’io non può auto-negarsi, è ovvio, può arrivare al limite, poi può accadere che accada la Śaktipata, la grazia (ovvero l’opera al nero può preludere all’opera al bianco), ma questa grazia se accade accade inattesa e parte da “prima”, e per altro verso tanti hanno danzato sull’orlo del vulcano, chi finendoci dentro, come Nietzsche, chi descrivendo il proprio Inferno per poi uscirne senza che nulla fosse accaduto, come Strindberg. Ma è solo chi crede di essere l’io che può pensare che ci sia uno stacco tra ragione e grazia, perché in effetti entrambi sono l’ātman, la differenza è il suo disvelarsi. Dalla lettura comparata delle più diverse dottrine esoteriche, emerge la puntuale conferma di cosa afferma Kṛṣṇa nella Bhagavad-gītā: ogni via è la migliore, semmai la pregiudiziale che deve aggiungersi per gli occidentali è l’avvedersi che si vive in una bolla. L’errore, che Heidegger ha denunziato in ogni modo, è proprio il credere che pensieri e ragione siano fonte di conoscenza verace laddove il loro unico fondamento è il fatto che passino per la mente (a prescindere dal considerarsi che ciò porta talora a benefici talora a delitti, il male essendo un idolo a posteriori creato per giustificare i delitti, non la loro causa). La dialettica platonica, ad esempio, non è solo sinossi e diairesi, bensì questi sono gli strumenti, razionali, che Platone indica come mezzi rispetto al fine dell’innalzarsi dell’occhio della psiche dal fango barbarico in cui giace, occhio della psiche che vede le idee e si pasce di quella conoscenza “che non è comunicabile come le altre conoscenze”.

L’ātman appare agli io anche come pensieri, anzi finché non lo si riconosca appare solo come pensieri, se mai dapprima marginali e diversi da quelli ordinari, almeno per come gli yogīn dicano si possano riconoscere dopo, dopo che si conosca l’ātman. Insediatosi Śiva mercé l’attivazione di Ājñā-cakra e pedissequa luce interna, è Śiva che dirige (questo è lo snodo del Tantra detto nei termini dello Śivaismo del Kashmir; Ājñā-cakra significa centro di comando, non terzo occhio, Śiva è l’ātman che essendo Śiva, il Brahman, è anche gli io): si tratterà poi di discriminare le visioni promanate dal guru interiore dai pensieri ordinari, e per farlo basta osservare il flusso dei pensieri (è sempre inteso che anche i pensieri ordinari e quindi gli io siano ātman, ma essi derivano, tecnicamente, dalla influenza dei semi karmici cioè dagli eventi samsarici in cui evidentemente ciascun vivente vive, negli stadi avanzati degli yoga essi sono detti influire sempre meno). 

Questo è ciò che dicono i testi in termini pratici, ma al tempo stesso è ripetuto che ciò anche per lo yogī non sia facile, lo diventa se non lo si pensa, ovviamente: questo sarebbe il punto, vivere l’atman e quindi gli io nella spontaneità naturale di essere quota del Brahman, se invece si calcola o analizza “in diretta” ci si identifica con un io anche se si pensano volutamente pensieri altri, mentre occorre lasciar essere l’io di turno che dell’ātman sia comparsa, percependolo in modo para-consapevole — tutto estremamente contorto, ma è un modo di rendere in termini esistenziali la integrazione della dimensione superiore in quella ordinaria, o della liberazione nella vita, o dell’occhio divino nelle cose mondane, è detto in mille modi diversi.

Se solo chi sia yogī possa realizzare l’essere yogī, rende forse anche il Tantra autoreferenziale? La risposta è negativa: è vero che non è che se si legga del vedere la propria vera natura la si possa perciò vedere, ed è vero che per questa veduta serve un organo mentale senza il quale si può solo pensare di non-vederla o di vederla e di crederla non-esistente o esistente, ma questo organo mentale lo hanno tutti, è appunto la natura della mente umana come fu donata, la base della coscienza che distingue l’uomo dagli altri viventi: è un qualcosa, questo organo mentale, che si potrebbe dire analogo alla capacità che ha individuato Chomsky come predisposizione all’apprendimento del linguaggio, con la differenza che quest’ultima è facilmente accessibile perché relativamente superficiale, mentre la capacità “yogica” è appunto la base della mente ed è più difficile da mettere a fuoco perché troppo vicina.

Se il Buddha stesso disse che la realtà autentica non può essere spiegata, non mi ci metto certo a tentarlo io; posso però cercare di tradurre singoli tratti di queste dimensioni tantriche per come esposte nei testi rivelati, rendendole appunto nei termini del linguaggio analitico esistenziale contemporaneo — operazione ermeneutica che è, si ripete, una descrizione discorsiva di stati pre-discorsivi, attraverso un esporre per definizioni e schemi ciò che non tollera definizione e non ha schemi.

Ed il termine medio per farlo è costituito dall’effetto dell’installarsi della consapevolezza della dissoluzione del tempo: non la non-esistenza del tempo, ma la non-esistenza delle scansioni temporali, che la rappresentazione crea a proprio uso e consumo così come crea soggetto e oggetto. Nei Tantra non si parla granché del superare il tempo, o meglio certo se ne parla ma non in termini particolarmente approfonditi ed enfatici, perché è ovvio che la realtà del tempo non sia quella che crede la mente ordinaria, è solo il pensiero occidentale che si è creato il totem del tempo sequenziale come evidenza basilare della realtà fenomenica, e ne ha sfornato aforismi l’uno più arguto dell’altro (gli aforismi non si confutano, semmai li si dovrebbe dimostrare). Non è che il tempo cessi di essere, per lo yogī, né è che le cose non mutino o che mutino in una qualche dorata eternità: la realtà è sempre la stessa, solo cessa essa stessa di essere convenzionale e diventa autentica — non si tratta di una diversa percezione della realtà, bensì è che essa si disvela in uno con il disvelarsi della mente: si rivelano entrambe quali naturalmente sono, la mente è Coscienza la realtà è Coscienza. Muta la condizione strutturale della realtà di cui la mente è quota; ma già qua il linguaggio discorsivo è carente: non è che “muti” qualcosa in qualcos’altro, e non è nemmeno che “si riveli” da come appariva a come invece è. È il modo di pensare rappresentativo stesso che preclude di rapportarsi alla vidyā, perché il modo di pensare rappresentativo è fondato su “enti”, e quindi non può che pensare eventi come “il mutare” o “il rivelarsi”, perché esso intrinsecamente dà per scontato che non ci possano essere che enti e che pertanto questa realtà autentica nel suo insieme debba essere un “ente”. Quindi tradurre i Tantra in termini filosofici significa offrire sprazzi di immagini che non hanno significato oggettuale in sé, perché questi sprazzi di immagini presuppongono e dichiarano che non ci sono né oggetti né soggetto né scansioni temporali — questo esporre è cioè analogo a quello uso agli alchimisti rinascimentali che offrono ricevute di immagini, e se vengono letti parola dopo parola non è difetto loro.

Questo precisato, può ben computazionalmente dirsi che la realtà convenzionale muti e la si scopra autentica, perché a mutare e riscoprisi autentiche sono insieme e contemporaneamente la Coscienza che è la realtà e la Coscienza che è la mente, le quali sono la stessa Coscienza: l’ātman è quota del Brahman. Vengono meno le strutture portate dalla rappresentazione, svaporano o crollano le varie schizo-categorie, soggetto di qua e oggetti di là, materia palpabile e pensieri inessenti, prima e dopo, eventi accaduti e perfetti, situazioni in divenire. Svanita la credenza che esista un passato già irrimediabilmente compiuto, un futuro che accadrà, ed un evanescente e microscopico presente, istantaneo o eterno che lo si voglia, sono proprio i tre tempi, non il tempo in sé, ad essere smascherati — si ribadisce, per quanto già esplicitato, che non è che la condizione tantrica riduca i tre tempi a pensieri, semmai pensieri passato, presente e futuro lo sono nella mente ordinaria. 

E come accade ciò? Lo dicono i testi rivelati da sempre, quali in modo diretto quali implicandolo, chi avanza negli yoga constata che sia plasmata la realtà a prescindere dalla considerazione che gli eventi e i fatti mutati appartengano a ciò che è usualmente detto il passato, il presente e il futuro, semplicemente perché è così. Si è usata una espressione impersonale, “che sia plasmata la realtà”, perché ciò non lo fa lo yogī consapevolmente, bensì l’ātman “dal” Brahman attraverso sé ed attraverso i vari suoi io, senza che lo yogī di per sé ne debba essere consapevole. Lo yogī vede un suo io agire diretto dall’ātman, come osservando un film: dapprima e talora dal punto di vista dell’io, talaltra dal punto di vista dell’ātman; poi integrandosi il tutto al di fuori di un punto di vista — e ciò porta ai livelli superiori del Tantra.

È allora lo yogī diverso dall’io agente e dall’ātman? Lo yogī “è” l’ātman, e l’ātman è contemporaneamente l’ātman e l’io che agisce, ed è il Brahman. Questo significa, almeno a livello introduttivo, Tat Tvam Asi, “tu sei Quello”, icona della Chāndogya Upaniṣad: è il fine (intermedio) dell’asparśa-yoga, lo yoga come tale psico-organico del Vedanta, non è un motto o un concetto, bensì indica “cosa” si deve riconoscere di esperire di essere”, cioè appunto l’ātman. Nelle Upaniṣad è ripetuto a non finire che non serve a nulla pensare di essere l’ātman, ma al contempo il pensare di essere l’ātman è appunto il contenuto pratico dell’asparśa-yoga, fino a che non ci sia differenza tra pensiero e non-pensiero ovvero accada il salto da consapevolezza rappresentativa a consapevolezza pre-rappresentativa (salto che appunto Heidegger dice, nel testo intitolato Identität und Differenz, “salto nell’abisso”, ma chiarendosi che non è un tuffo, tantomeno volontario, bensì uno scarto retrocedente, il celebre Schritt-zurück, il “passo indietro”).

L’ātman è anche il Brahman, ma parlare del Brahman, pur sulla base di cosa ne dicono i testi rivelati, è impresa che non pare possibile: se dell’ātman si può accennare una dissezione a causa del fatto che è anche implicata una dimensione individuale, il Brahman è proprio la dimensione omnincludente e come tale non conoscibile dall’individuo se non per partecipazione, il che rende impossibile il dirsi di esso — in effetti il termine “partecipazione” riecheggia la methexis platonica quale ultimativa definizione del rapporto tra enti mondani ed idee, qui si usa evidentemente in altro senso: nel Brahman ci sono anche i fenomeni che sono detti enti mondani e le idee stesse, ma non esistono in modo intrinseco e non sono la struttura della realtà (quanto alle idee, anche gli yogīn le vedono ma appena vi accennano, Śrī Aurobindo le nomina perché visse a lungo in Occidente, perché non sono un supposto essere auto kath’auto del quale le cose mondane partecipino o siano copia, bensì è il ridurle a termini razionali che le rende enti). Semmai il Brahman in termini occidentali può dirsi così: identità e differenza negli yoga non è che non ci siano, solo che non sono i concetti che ne ha il pensare rappresentativo perché esso presuppone enti e stabilisce identità e differenza tra enti, come coincidenza tra sé e sé e non coincidenza tra sé ed altro, ovvero identità e differenza sono astratti svolgimenti descrittivi impliciti nel pensare un “ente”; nel Brahman non si danno enti, eppure si danno identità e differenza ma coesistenti e in effettivo: chiaramente queste sono vuote parole che suonano barocche, ma il Brahman che dicono gli yogīn è il vivere questo, e non certo il concetto di “un tutto” che filosofi e fisici possano pensare.

Voler discettare di condizioni così paradossali non porterebbe ad altro che a rendere poltiglia il paradosso. Ed in effetti proprio questo gli yoga dicono, non ci si deve curare di ciò, il tentare di controllare con la ragione, cioè proprio con l’io che è dato come campione della autolimitazione mentale, ciò che è affermato essere oltre i limiti della mente ordinaria, è va da sé una insensatezza. Ma, soprattutto, si ripete, gli yoga statuiscono che lo stesso pensare a queste cose è non-yoga, perché è analisi: il fine di essere l’ātman è appunto l’“esserlo” non il pensarlo, perché ovviamente il pensarlo sarebbe ricadere nella rappresentazione; ovvero è chiaro si oscilli, essendosi in un corpo, tra atman e io, ma si deve essere sempre consapevoli che gli io sono riflessi dell’ātman — tutto ciò è anni luce diverso, affermano gli yogīn da sempre, dalla dicotomia tra essere e non-essere che da due millenni tiene inebetito il pensiero occidentale, perché appunto si tratta di mondi diversi: stato naturale da una parte e rappresentazione dall’altra, lo stato naturale (ammesso che possa darsi) è tale da conoscere se stesso e conoscere la rappresentazione, la rappresentazione è tale da non poter vedere se stessa, come un uomo non può vedere i propri occhi se non per riproduzione riflessa, e non può vedere quindi lo stato naturale che è al di fuori di essa. Sono la parola stessa ed il concetto di rappresentazione che pongono questi limiti: se si rap-presenta si sostituisce una cosa con un’altra, ed infatti per le neuroscienze la mente è rappresentazione in quanto sostituisce impulsi elettro-chimici con pensieri, non conosce in via diretta ma mediata; dire che la mente è rappresentazione equivale a dire che la mente è una bolla, che si vive “in una bolla”, come infatti sanno e pensano tutti coloro che vi pongono mente da millenni in ogni ambito, poi si dà per scontato che non possa essere che così e si dice appunto che la rappresentazione sia la modalità conoscitiva e noetica propria e intrinseca alla mente umana, non v’è chi lo possa negare, ed in effetti gli adepti non lo negano bensì lo affermano, solo aggiungono che questa “bolla” non è la natura umana bensì la natura umana “ordinaria”. Non c’è un nesso eziologico, va da sé, tra il sapere di essere in una bolla e il potervi uscire, e ciò mette in crisi il pensiero: sapere che ciò che si pensa è ex se ingannevole ma non poter risolvere l’enigma. Descartes e Kant, due tra i massimi pensatori originari del pensiero occidentale, esordiscono così, dicendo che non si può sapere se cosa si pensa sia vero ed esistente, poi entrambi cedono al terrore del vuoto, ovvero alla incapacità di mantenersi in questa pre-evidenza, il primo dicendo che c’è Dio che garantisce che non si stia sognando, il secondo dicendo che comunque bisogna affidarsi alla ragione — solo il rozzo Hegel dirà, proprio come Aristotele solo da un altro punto di vista, che ciò che si pensa deve essere la realtà, con quel che ne è seguito. Nietzsche invece nel suo primo testo, Su verità e menzogna in senso extramorale, constata semplicemente che la realtà non è come appare ed è tautologico che ogni scappatoia sia insensata, il resto della sua opera saranno le variazioni di quest’aria; Heidegger poi mostrerà teoreticamente come appropinquarsi alla realtà al di qua della rappresentazione. Le dottrine esoteriche muovono dalla ovvietà che la realtà apparente sia la convenzione cui gli uomini sono portati a credere per il credere di essere la mente l’io, per questo motivo è detta appunto dai tibetani “realtà convenzionale”; negli yoga-tantra superiori tibetani (la “fase di perfezionamento”, declinata sia da Padmasambhava che da Naropa), lo yoga del corpo illusorio (sgyu-lus) è appunto la pratica che conduce a realizzare che tutte le cose, pur se fenomenicamente esistenti, sono come tali illusorie — questo yoga si può praticare da chiunque in qualunque momento, ma la sua realizzazione presuppone la realizzazione dello yoga pregiudiziale che è il gtum-mo ovvero il kuṇḍalinī-yoga.

Lo yogī applica, in ogni caso, la viveka, che si può anche definire una forma di ragione a condizione che si svincoli il temine ragione della autoreferenzialità che costruisce l’essenza della ragione ordinaria. L’essenza della viveka chiarisce la natura dello yogī e il “sostrato” delle pratiche tantriche: tutti sono buddha basta che lo si realizzi, e al contempo pochissimi sono i vittoriosi; ciò significa appunto il dire che la rappresentazione è solo un velo, a maglia meno densa o più fitta, lacerabile o compatto, dipende da come si nasca e poi da come si viva, da cosa accada o non accada; ebbene chi nasce vedendo la realtà in modo a-convenzionale, in grado più o meno intenso o più o meno consapevole sia cioè avatāra o tulku, appunto vive a sua insaputa più o meno intensamente o consapevolmente pensando secondo un certo grado di viveka, e, a un certo punto o da sempre o mai, può installarsi la luce interna alla mente, e da questo momento sospesisi i pensieri la viveka si dispiega — la viveka cioè è sempre la stessa, dipende da quanto incisivamente essa costituisca il modo di vedere e pensare in sé, e ciò significa dire che yogī si nasce anche se ciò non implica che lo si diventi effettivamente, ma appunto non lo si sa se non quando lo si è, questo essendo il senso del “risveglio” se inteso separatamente dalla “illuminazione”, il che equivale a riconoscere che tutti potenzialmente lo sono se lo sono. Quindi viveka è intesa in due sensi a seconda che riferita a prima o dopo l’apparizione dell’ātman: dapprima è diretta a portare al riconoscimento della autoreferenzialità della ragione — qui occorre una discriminazione, che è già decisiva come appena detto: la viveka in tal guisa appare ancora razionale, quale un metodo, ma se la si applica quale metodo allora è puramente ragione e non è viveka, la viveka è visione ispirata rispetto alla quale il voler esasperare la ragione è momento separato e calcolante, cioè la viveka in ogni caso è cosa per chi sia chiamato allo yoga, diversamente non può darsi viveka —; quando poi si installa l’ātman, allora la viveka è appunto il discriminare pre-teoretico. La viveka è sempre la stessa cosa, è “pensare dell’ātman”, varia di intensità al variare del darsi dell’ātman — gli yoga, lo yajña rigvedico, non si possono insegnare perché sono conoscenza “non comunicabile come le altre conoscenze”, al più vi ci si può indirizzare: se l’ātman di chi apprende intende cosa è detto pre-teoreticamente al di qua delle parole discorsive impiegate, allora costui è nello yoga, se la sua mente non intende effettivamente, allora giocoforza si razionalizza cosa si legge, e si è semmai sādhaka (aspiranti), oppure “si dileggia”. Quindi dato che tutti sono l’ātman perché l’ātman è la natura della mente, ognuno sarebbe nelle viveka (gli artisti e gli ispirati, nelle scienze o nella riflessione, sono tali per il godere di sprazzi, estemporanei e non compresi, di viveka), ciò che la preclude è la rappresentazione, che sopravviene alla Coscienza per l’essere la stessa nell’individuo coesistente alla materia: ciò evidentemente non significa dire che la materia e i fenomeni non esistano, ma significa ammettere che la mente venga “naturalisticamente” ridotta a ciò che la alimenta, ovvero alle risultanze dei sensi corporei sinallagmaticamente alle quali non può che installarsi l’io. La mente ordinaria è appunto i pensieri ridotti alla esperienza ordinaria; ma i Tantra altro non fanno che dire che c’è altro da esperire — appunto le dimensioni energetiche che la mente ordinaria ignora in quanto le ignora; il Tantra, la Qabbalah, l’Alchimia così come sommamente il Ṛgveda, sono l’opposto che spirituali o metafisici, al contrario metafisica è, come ha definitivamente chiarito Heidegger, la rappresentazione, in quanto fa credere che sia vero e fisico ciò che la rappresentazione stessa in quanto tale costituisce come sostituto cerebrale di ciò che è fenomeno: se le neuroscienze dicono che sia fisico ciò che al tempo stesso dicono l’elaborazione in pensieri encefalici di particelle chimiche e impulsi elettrici, i Tantra affermano che codeste elaborazioni sono in sé illusorie; entrambe le scienze dicono la stessa cosa in essenza, cioè la dimensione mediata della appercezione sensoriale della realtà, le neuroscienze la giudicano in modo contraddittorio rispetto alle premesse, per evidenti motivi di nescienza e di ansia di consolazione, il Tantra assume questa essenza in modo coerente. Però ecco, anche molte filosofie e molti entusiasti dicono che la realtà non è come appare, però appunto lo pensano, lo “vogliono credere”, le dottrine esoteriche invece si fondano su un esperire che è la connessione della quota di Coscienza che è l’ātman con la Coscienza che è il Brahaman: la Conoscenza è non più mediata dalla materia, né da ciò che si percepisce e si crede fenomeno né dai conseguenti meccanismi biologici fisico-chimici. L’esoterismo operativo è si ripete esperire, non credere; e questo esperire è a sua volta anche neuro-biologico, ma è anche immateriale: ma appunto la dicotomia tra mente e materia, tra immateriale e fisico, è già solo il portato della rappresentazione, la quale crede alla materia e alla mente come enti separati perché così alla coscienza appaiono (non si tratta di dover spiegare cosa significhi ed implichi che la separazione tra mente e materia sia illusoria, perché non è possibile dare la prova di una inesistenza). L’ātman si dà occultandosi, così come è detto di Śiva per le correnti esoteriche kashmire e così come dice Heidegger dell’Essere pre-metafisico, cioè viene ottuso dalla rappresentazione pur essendo l’autocoscienza: l’uomo come animale razionale è autocosciente di essere mente e corpo perché così gli appare e non gli appare altro, se invece l’ātman è disvelato, in grado più o meno intenso, allora esso è autocosciente di sé come ātman; detto così è semplice e schematico ma raramente è così, anzi l’opera al nero della distruzione dell’io è un eterno non-comprendere, fatto di non-rassegnarsi a evidenze che si intendono erronee e di non-poter-comprendere altro (come detto non si può nemmeno pensare di non essere l’io, ciò presuppone il fermarsi dei pensieri), poi può accadere l’ātman si disveli oppure no — la Via del Tantra è appunto la via breve che consente di testare, al costo di rischi e fatiche immani, se si sia predisposti per esperire altro dalla realtà convenzionale, ma al contempo nei Tantra si deve, come usa dire, venire risucchiati. Alla luce di tutto ciò la viveka deve quindi dirsi, a livello essenziale, come la condizione di una mente che tende ad essere pervasa per natura dall’ātman laddove la condizione comune è che la mente sia l’io ovvero sia dominata dalla bieca e stolida ragione; l’ātman può imporsi di punto in bianco, o dare cenni, o essere non ostruito dalla nascita, ma certo si tratta di una “disposizione”; è per questo motivo che è ripetuto che gli yoga non garantiscano nulla, cioè non basta dedicarsi agli yoga per ottenere realizzazioni (le figure coperte di cenere con barbe lunghe ed amuleti tendenzialmente sono aspiranti cui Kuṇḍali non ha dato riscontro, diversamente non avrebbero da tentare di destarla); gli yoga non sono fini, è scritto in ogni testo, bensì sono i mezzi per un fine che non è nemmeno razionalizzabile, e sono come tali destinati a chi sia ad essi chiamato, il che è dire che yogī si nasce anche se ciò può non essere sufficiente al diventarlo. 

L’ātman è l’oggetto principale se non unico delle Upaniṣad antiche, le quali costruiscono il Vedanta cioè il coronamento dei Veda che a loro volta essenzialmente sono il solo Ṛgveda; esse sono intese dagli studiosi occidentali come sistemi filosofici ameni anche se difettosi rispetto alle esigenze della verità empiriocritica razionalistica. Si riportano alcune proposizioni tratte dalla Kaṭha Upaniṣad: “O Naciketas, ben conoscendo il fuoco che conduce al cielo te lo esporrò chiaramente. — Questa convinzione [che concerne l’ātman] non può essere acquisita con il ragionamento. — L’uomo risoluto, meditando su quel Deva che è difficile a realizzarsi, che è penetrato in un segreto recesso, che è fissato nella caverna [dell’intelletto], che è immerso nell’abisso ed è antico, tramite il pervenire all’unione con il Supremo ātman, depone [le nozioni concernenti] il piacere e il dolore. — Questo [Puruṣa] è profondamente nascosto in tutti gli esseri: non appare manifestamente come ātman, ma viene realizzato grazie a una intuizione concentrata ed estremamente acuta da coloro che percepiscono le cose [più] sottili. — L’Autoesistente rese gli accessi esterni incapaci [di coglierlo]: per questo [l’essere individuato] vede [solo] le cose all’esterno e non l’intimo ātman. Qualche saggio, aspirando all’immortalità, divenuto uno, rivolgendo all’interno la vista [esteriore], vide l’intimo ātman. — [Quello che] sospinge in alto il prāṇa e tira nella direzione opposta l’apāna, Quello che risiede nel centro ed è degno di venerazione, tutti i deva lo adorano. — Cento e una sono le nāḍī [che si diramano] dal cuore. Di quelle, una sola procede verso l’esterno passando per il [vertice del] capo. Ascendendo lungo quella si ottiene l’immortalità. Le altre, che vanno in tutte le direzioni, riportano alla morte” (Trad. Raphael).

Lo yogī, oltre che ancora residualmente gli io, è l’ātman, e l’ātman è il Brahman. La dimensione dello yogī è semmai lo spontaneo ritrovarsi pur restando individuale nel tutto, il tutto inteso come non-temporale e con-essente, piani spazialmente “presenti” consistenti anche di “passato” e di “futuro”, in una sovrapposizione naturale che si dà come una pacata luminosità di possibilità. Luminosità è parola astratta se non si pone mente alla particolare luce interna che costituisce l’apparire dell’ātman, la quale luce di Ājñā-cakra se è vero i testi dicono sia una precondizione “meccanica” di accesso allo yoga effettivo, è parimenti detta appunto permanere come irradiazione; il termine vortice implicherebbe invece una vorticosità che per quanto a-personale e immota non c’è, il termine anello una circolarità che non c’è, il termine sfera una compiutezza dimensionale che non c’è, e via dicendo. La parola possibilità non significa incertezza, eventualità o caso, e nemmeno prevedibilità o potenzialità, non è né “l’agire e patire” di Platone né la potenza aristotelica, bensì come la luminosità la possibilità è nella natura dell’ātman, il quale si dà come fonte di inesauribile possibilità solo se si ignora che tutto è nel Brahman, si tratta di farlo apparire se il Brahman si dà in modo da poterlo far apparire. La luminosità di possibilità è un modo di dire Kunje Gyalpo, la suprema sorgente, il nome e la sostanza di uno dei Tantra radice dello Dzogchen, il quale a sua volta è un modo di dire, nelle sue massime implicazioni, Tat Tvam Asi. Da qui la spontaneità invece che il calcolo. 

Quanto appena descritto, la luminosità di possibilità, è uno stadio che dovrebbe alfine essere superiore a quello che dico il “livello intermedio del Tantra”, nel senso che entrati nella condizione yogica vi si procede, così dicono i testi, e appunto “si devono” realizzare molte condizioni, non è che istantaneamente si sia catapultati a vivere tutto ciò insieme, ovvero sì, ma ci si deve rendere conto di dove ci si trovi. Ad esempio la onnipresente caverna, topos nei testi degli adepti come dei chiamati o di certi letterati, è un modo che per gli adepti e taluni chiamati significa dire l’esperire la calotta cranica come vuota, ovvero l’encefalo stesso come vuoto, luogo sopra-fisico in cui si manifesta l’ātman, come colonna o asse o come oscillazione, e qui si è coscienza non-più-io — cosa si è allora? come si può realizzare di non-essere-l’io se appunto la coscienza desta e conscia “ovvero” l’io lo realizza? quindi davvero c’è uno stato di coscienza anteriore all’io? queste, prima che analisi a posteriori, sono compiutezza e realizzazione spontanea diacronicamente successiva a non-essere-l’io, come dicono i testi, perché se non si vivesse e realizzasse di essere coscienza-che-non-l’io non ci si potrebbe stupire di non essere l’io (questo semmai potrebbe essere lo “stupore” che genera la viveka, così come lo thauma del vedere oggetti decomporsi generò in Aristotele la filosofia razionale). I Tantra del Tibet dicono che realizzare la śūnyatā, la vacuità, è momento sì distinto da quello della installazione della chiara luce, anzi è proprio lo stato cui il meccanismo di Kuṇḍali può far accedere, ma si tratta appunto di aspetti di uno stesso processo, nel senso che la chiara luce e la vacuità sono reciprocamente implicate, ovvero la stessa cosa, cui si accede in ultima analisi per grazia, favorita o meno dal  kuṇḍalini-yoga; la śūnyatā è appunto rigpa, coscienza non-io, non è che ci siano regole o schemi o processi o concetti (nei testi tibetani non si parla di ātman, che è termine sanscrito proprio del Vedanta, ma appunto dire la vacuità significa dire non-essere-l’io e la coscienza di ciò è quello che gli yoga indiani dicono ātman, e d’altra parte la nozione di anātman, che significa appunto non-ātman ed è espressione tipica del Buddhismo non tantrico, non è impiegata nel Vajrayāna, e in ogni caso non pare necessario precisare che la contrapposizione tra anātman e ātman sia puramente filosofica: dal “punto di vista” tantrico la sostanza è lo stazionare nella base della mente anteriore all’io, che poi la si chiami ātman o non-ātman è una differenza puramente nominalistica, anche in Oriente va da sé ci sono molte filosofie che, pur non essendo ondivaghe e arbitrarie come quelle occidentali, sono in essenza rumore di parole, come è detto l’argomentare dei greci nel Corpus Hermeticum). Alla vacuità, è scritto nei Tantra, è necessario accedervi almeno una volta, diversamente va da sé non si può minimamente intendere cosa significhi (Nāgārjuna, autore delle Settanta stanze sulla vacuità testo inaugurante la Scuola della Via di mezzo ovvero la Mādhyamika che risolse le dispute sulla parola “impermanenza” detta dal Buddha Śākyamuni, è detto anche Ṛṣi e raffigurato come nāga, cioè cobra mistico, dalla vita in giù un serpente avvolto in tre spire e mezza, alla guisa di come i Tantra indù descrivono Kuṇḍali riposante nel Mūlādhāra-cakra); la vacuità per i filosofi buddisti è un concetto, per gli yogīn è una condizione neurobiologica, alla quale si deve accedere, di poi, scrivono, la vita è cambiata per sempre, anche se non lo si sa: in entrambi i casi, cioè sia per i filosofi che per gli adepti, la śūnyatā è la “coproduzione condizionata” detta da Nāgārjuna, solo che per i primi queste sono due parole astratte, per gli yogīn una immagine che rimanda alla natura autentica della realtà come effettivamente la vivono. Gli yogīn, che di regola vivono tutto il Tantra assistiti da un guru, scrivono che lentamente, magari a tempo perso, ovvero meditando o non-meditando, alcuni pensieri a quello stato vacuo rimandano, e pian piano si realizzano poi tanti diversi stati, ovvero si realizza di essere l’ātman, ma non si sa cosa sia l’ātman e intanto si realizza di essere ancora un io, e tutte queste sono condizioni che si susseguono, talvolta a distanza di tempo, magari a lungo superficialmente dimenticandosi o rifiutandosi del tutto vacuità e ātman, ma eppure sempre esse permeano la mente, per poi ripresentarsi come “pensiero fisico”, e così si rivive la vacuità inaspettatamente, non come ricordo, ma la si rivive pur essendo chiaramente consci e consapevoli di essere un io — si può dire si rivive il passato nel presente — così come spesso ci sono anticipazioni effettive di cosa si realizzerà, vissute consapevolmente come porzioni del futuro cadute nel presente, salvo poi vedere che i testi le dicono anticipazioni ma sono esse stesse le realizzazioni. Ora, di descrizioni attualizzate di questi due schemi che analiticamente si devono dire “vivere nel presente il passato” e “vivere nel presente il futuro”, sono piene i testi, a volta esposte teoreticamente in modo logico, a volte narrate nella inconsapevolezza di chi le narra; e poi ci sono appunto stuoli di condizioni analoghe, ovvero tutte le variazioni della śūnyatā cioè le possibili interazioni di ātman e io, tra le quali il menzionato chidākāsha dhāranā è un esemplare molto esplicito. In ogni caso tutte queste concatenazioni tra i testi rivelati non sono concatenazioni analogiche, bensì sono puramente logiche, espressioni della logica pre-teoretica però, che si fonda sulla “compartecipazione” — se si nota uno scarto tra il concatenare in sé detto pre-logico e la pre-logica degli eventi concatenati, ebbene è anche questo “lo stesso”: il concatenare eventi pre-teoretici, si vuol dire, è a sua volta un evento pre-teoretico, non si tratta di mettere sullo stesso piano astratto logica astratta e ontologia astratta, come fanno i filosofi occidentali e tutti senza saperlo, bensì di esercitare lo yoga della discriminazione pratica, il quale è se non proprio l’aver vissuto ogni evento letto quantomeno il vederlo identico agli altri al di qua delle parole, espressione variata di uno stesso unico accadere. 

Il realizzare cotali varie condizioni costituisce appunto il livello intermedio del Tantra, il quale consta di codeste realizzazioni che appunto sono semplicemente il darsi dell’unico “evento” che è l’ātman o śūnyatā: non ci sono stadi in sé, se mai modalità del manifestarsi della śūnyatā o ātman. Tutti gli yoga e le dottrine segrete sono puramente realizzare l’ātman o śūnyatā, e appunto questo realizzare si rifrange in mille riflessi, variabili non tanto per il contesto culturale o teologico quanto per il rifrangersi stesso, che le parole poi descrivono. Ebbene il livello intermedio del Tantra è realizzare questo rifrangersi, mentre la condizione sopra detta “luminosità di possibilità” è il culmine semmai del livello intermedio del Tantra, ovvero è già l’essere all’interno dello stadio successivo al Tantra, che l’Alchimia dice opera la opera al rosso ed i tibetani, a seconda delle Scuole, Mahāmudrā o Dzogchen: allo anuttarayoga-tantra (gtum-mo, yoga del corpo illusorio, yoga della chiara luce, del sogno, del sonno — ovvero come esiti: Kuṇḍali, luce, ātman) segue lo atiyoga, lo yoga primordiale, dove, secondo l’adagio dei tre Testamenti di Garab Dorje l’essere non umano che donò lo Dzogchen agli esseri umani, si è introdotti allo stato naturale, lo si realizza, lo si integra; ebbene l’essere introdotti allo stato naturale dello Dzogchen è il realizzare l’ātman, cioè è lo stesso livello intermedio del Tantra ma scostato in un punto di vista diverso — chi in questi ambiti cerchi gradi, gerarchie e classificazioni, non ha evidentemente inteso cosa significa che la Base è la Via ed è il Frutto, ovvero la progressione certo c’è e c’è sia tra veicoli sia all’interno di ciascun veicolo, come dicono tutti i testi, ma essa dipende puramente dai diversi modi di darsi dell’ātman, il che significa dalla condizione neurobiologica in ciascuno diversa.  

Questo, puramente folle per gli occidentali, essendo l’alveo del Tantra, risulta evidente che la naturalezza e spontaneità di cui parlano i Tantra non è cosa possa paternalisticamente pensare l’uomo occidentale, queste naturalezza e spontaneità essendo l’ātman stesso esprimono uno stato che non è per nulla psicologico, o percettivo, o emozionale, o comportamentale, o a-conscio, bensì è lo stato naturale della mente che il chiamato aveva sempre intraveduto e non compreso, solo che ce ne se può rendere effettivamente conto, dicono i Tantra, solo se lo si esperisce neurobiologicamente (mercé l’attivazione di Kuṇḍali), e quindi il realizzare “progressivo” è lo “stato intermedio del Tantra” — il quale a sua volta, si ripete, è letteralmente non-comunicabile perché anteriore al pensiero rappresentativo e al linguaggio ordinario. Non è che gli yogīn vivano in mondi inesistenti o paralleli o in circoli ermeneutici, essi dichiarano di vivere la stessa identica realtà fenomenica che per tutti è, solo che la vivono come è davvero e non come rappresentata da una mente limitata alle percezioni sensoriali: essi avvertono le strutture, non solo concetti e fatti, captano le “anime”, gli ātman, e non i pensieri che le deformano (e da qui sorge la bodhicitta, parola chiave del Buddhismo, cioè la compassione, a causa dell’ignoranza della loro vera natura da parte della generalità degli esseri umani). 

L’ātman è una forma di coscienza naturale svincolata dai pensieri transeunti, dirige “fisicamente” dall’alto, in armonia si potrebbe dire a quello che Platone dice to agathon, da rettamente tradursi, con Heidegger, con “l’adeguato”, invece che con il Bene, o il bene, termini questi ultimi che creano metafisici idoli in luogo della semplice realtà. Il problema della mente ordinaria è che essa crede ai propri pensieri; il punto non è constatare che alcuni pensieri siano retti altri sbagliati, come evidente a chiunque, il punto è che la mente ordinaria giudica a partire dai propri pensieri, da quelli che giudica meritevoli siano assunti come guida ovvero da quelli che si impongono; in ogni caso la mente ordinaria giudica a partire da “pensieri” che appaiono lì per caso, senza rendersi conto di cosa siano i pensieri, senza rendersi conto da dove vengano, senza rendersi conto cioè che sono solo pensieri; ci sono cioè due livelli di errore, si ripete, il giudicare è certo un errore, ma è susseguente alla autoillusione del “credere ai pensieri”: si giudica, cioè si ritiene vero o falso, infatti solo se si crede ci siano enti, cose o persone autosussistenti, che a causa della loro autosussistenza ad un io che si crede autosussistente paiono “da capire” e cioè da giudicare (da un lato si può osservare come quanto detto sia lo stesso che dice Heidegger intorno alla tecnica: non è la manipolazione delle cose ad essere errata in sé, può portare a farmaci come alla ghigliottina, ma il credere di dover manipolare; per altro verso il “non giudicare”, motto tanto noto quanto frainteso, come non significa un patetico “non denigrare”, così non significa l’astenersi dal raddrizzare le storture cagionate da un “peggior giudicare” da parte di terzi, la giustizia finché ci sono “io” che credono di sapere è ovviamente necessaria essendo appunto bilanciamento di attaccamenti egoici).

La mente ordinaria è quell’ente che subisce i propri pensieri — ecco la ultimativa declinazione del subjectum: per Aristotele e fino alla Scolastica il soggetto è l’upokeimenon, il sostrato ovvero l’essenza che sta sotto, con Descartes il subjectum diviene l’essenza stessa, il punto di vista, in realtà, nella realtà della mente effettiva, il subjectum è ciò che è assoggettato ai pensieri, ciò che si dimena in loro balia, si dibattono in una pozzanghera tanto i grandi filosofi quando chi deve procurarsi un pasto. La mente ordinaria non può nemmeno concepire che esista l’ātman, perché l’ātman si dà se cessati i pensieri, e quindi evidentemente non lo si può pensare, sì che quando ne legge automaticamente lo riduce ai propri pensieri, i quali sono appunto ciò che occulta l’ātman; eppure lama, yogīn e adepti periodicamente ripetono che il gioiello che esaudisce i desideri è (dentro) la mente, che (dentro) la mente è il regno di dio o il nirvāṇa, questo dicono essere l’ātman, non deliri di onnipotenza o deliri messianici, e lo ripetono “a beneficio degli esseri senzienti”, per chi ne possa trarre vantaggio. Quindi dire che l’ātman dirige dall’alto è già una metafora, si può parimenti dire che esso sia il sentiero, che sia il Sanātana dharma che si irradia nello yogī o che sia Kuṇḍali la dea del linguaggio, ovvero il creare con la mente, ma tutte queste e consimili espressioni sono menzioni del darsi in individuum del Brahman, ed è proprio ciò la spontaneità naturale di cui gli io agenti partecipano: la sono per quanto offuscati, appunto perché gli io sono ciò che offusca — quando Heidegger dice che il suo essere pre-metafisico si dà occultandosi, egli evidentemente intravede lo stesso di Abhinavagupta che afferma che Śiva si dà occultandosi, entrambi si riferiscono, il primo più a modo proprio che il secondo, a quella dimensione che è la realtà autentica, che le Upaniṣad dicono Brahman

Essere fuori dal Kárman è una dicitura alternativa all’essere fuori dai tre tempi, come altra opzione è il dire l’essere fuori dal saṃsāra. Il Kárman non è solo una legge di causa ed effetto per quanto diversa dalla causalità accettata dalla mentalità razionalistica, bensì il Kárman è il Brahman detto sotto forma di causalità: uscire dal Kárman non significa non soggiacere alla causalità, significa concorrere a crearla per spontaneità (ed in effetti il termine Kárman nei testi antichi, nel Ṛgveda, significa qualcosa come “azione”, solo successivamente si è affermata la nozione di ruota del Kárman come concatenazione eziologica, la Via del Kárman-yoga significa a livello ordinario il retto agire e a livello superiore appunto il creare la realtà: si tratta di visioni coessenti, le categorie esistono solo in quanto le si cerchi); il saṃsāra poi è la realtà convenzionale, che il Buddha ha riconosciuto essere la sofferenza: questa è la prima delle Quattro nobili verità, le successive essendo l’individuazione della causa della sofferenza nell’ignoranza (della propria vera natura, va da sé), poi il riconoscimento della possibilità di superare la sofferenza (il che conduce al nirvāṇa), ed infine la via per perseguire l’obbiettivo cioè l’ottuplice sentiero — parte del quale sono la Via del Tantra.

L’ātman si sovrappone agli occhi fisici, ovvero la mente si rivela materiale (così come la materia si rivela mentale, ma in realtà è la dicotomia tra mente e materia ad essere una illusione). Si potrebbe dire, attualizzando le descrizioni tantriche, il vedere le direzioni verso e dal passato o verso e dal futuro di singoli “enti” o situazioni, o anche vedere una scena con aggiunta sovraimpressa un’altra scena, oppure il vedere da più punti di vista contemporaneamente o il vedere in alto la direzione ideale che renda significativo il quadro o dica quale fine vi sia immanente (ma in effetti i Tantra non riportano immagini così schematiche e semplicistiche, e se qui le si dicono è in quanto metafore la cui esplicita banalità preclude alla pur capziosa mente calcolante di ridurle già noto) — tutte queste sarebbero appunto la dimensione della realtà anteriormente al percepire essa limitata alle tre dimensioni che gli occhi di carne vedono e il cervello ottenebrato elucubra, non sarebbe un “di più”, ma sarebbe che un “di meno” è la condizione ordinaria della rappresentazione, questo dicono i testi rivelati, sarebbero cioè compenetrazioni, percepite più o meno occasionalmente, del Brahman nell’ātman, che altro non farebbero che rendere la pienezza potenziale intrinseca dei fenomeni che impressionano o hanno impressionato la retina. In effetti, ci sono due modalità di veduta tantrica, l’una più “organica”, emanata dai Cakra, l’altra più “psichica”, emanazione nella vacuità, ma ovviamente hanno la stessa natura e matrice psico-organica che è l’ātman. Una ulteriore metafora, di tipo psicanalitico, sarebbe dirsi l’interagire con le proprie ipostasi dell’ātman, intese appunto come sotto-manifestazioni attuali dell’ātman in particolari “io”, non sono “voci” né pensieri ordinari né dialoghi con sé o variazioni della coscienza quale interprete, sono piuttosto come gli aiutanti di K. nel Castello di Kafka o l’ombra e consimili “personaggi” nei romanzi di Murakami o certe figure dei film svedesi, solo che saputi essere se stesso sotto forma di personae, sono cioè, a condizione che li si riconosca come tali cioè appunto come io “particolari” (mentre i più ne parlano subendone l’influenza come se fossero personaggi a sé sorti per caso nella penna), ironie autonome dalle molteplici attività, non solo dialoghi con altri “io” indipendenti come si dà il giocare da soli a scacchi distaccatamente una mossa di bianco una di nero dove ogni mossa è sempre perfettamente, nei limiti dell’Elo, giocata con disincanto — questa è una metafora davvero occidentale, ricavata appunto a partire dall’io che vede le proprie inclinazioni che si preferiscono, e che restano giocoforza inespresse nel colloquiare quotidiano, dialogare tra loro a tempo perso, che potrebbe concorrere a indicare, si suppone, manifestazioni incidenti dell’ātman ancora ignoto al soggetto stesso allo scopo di promuovere in esso il rendersi conto che un titanico io lo si è solo se ci si vuole credere facendosi trascinare dalla corrente o dalla prosa, e cioè si vuole semplicemente dire che queste “ipostasi” possono essere annoverate tra gli “sbadigli di Kuṇḍali” di cui spesso parlano i Tantra: tutti gli uomini sono l’ātman, ovvero sono buddha ma dormono beatamente sulla natura della mente, l’ātman dà loro cenni che vengono sistematicamente ignorati, possono essere questi cenni “fisici” o “psichici”, il coglierli e sommarli di per sé non serve a nulla se poi non ci si ritrova psico-organicamente nell’“altra parte” per l’accadere della grazia, ma appunto cenni sono e chiaramente l’ignorare il cenno significa rinunziare alla grazia, perché se la grazia si dà per cenni significa che alla persona cui dà cenni essa non accadrà da sola, è tautologico. 

Una delle attitudini canoniche della coscienza superiore ricevuta dallo yogī attraverso l’Ājñā-cakra è il vedere dall’alto, che è riecheggiato nel kathorān con cui Platone nel Sofista designa i filosofi divini, ma le stesse “idee” è chiaro Platone, stando cosa scrive, le vide in tal modo; la presenza della direzione potrebbe essere forse stata intravista, per lampo eidetico, dallo stesso Aristotele, che poi l’avrebbe ridotta a quella razionalissima causa finale che ha delineato quale logico coronamento del sistema delle cause, anche se in effetti il telos aristotelico pare del tutto escogitato computazionalmente. 

In ogni caso, così dicono i Tantra, è solo questa attività dell’ātman che consente di creare la realtà con la mente, o meglio che effettivamente e direttamente crea con la mente. 

Data questa marea di premesse, si può finalmente dire che l’ātman fa vedere alla mente la realtà come è, e ciò fa sì che la mente agisca sulla realtà: sono due momenti entrambi di “creazione”, ed è ovvio che tale sia detta “creazione” solo rispetto alla mente ordinaria che non vede la realtà nella sua completezza, ma appunto ciò non è un “di più” essendo un “di meno” il non vederla, mentre di per sé, dal punto di vista dello yogī, questa “creazione” è semplicemente l’agire in modo spontaneo conoscendo la realtà integrale, che come tale è priva delle categorie di soggetto e oggetto e delle scansioni temporali — tale è il “livello intermedio del Tantra”, poi ai livelli superiori le cose sono più profonde e complesse. Questo è l’aspetto cruciale se vogliamo descritto rispetto al fenomenico; a livello “psicologico” il fine unico e solo del “livello intermedio del Tantra” è realizzare spontaneamente la spontaneità, vivere la naturalezza, non sorge nemmeno il pensiero di pensarci perché sarebbe innaturale il pensarci: affacciarsi alla condizione in cui creazioni mentali, miracoli, eventi sincronici, fortune, disavventure, sono spontaneamente “perfette”, estrinsecazioni naturali del Brahman come lo si “crea” — la vita è līlā: passatempo divino. Non certo ingenuità, stupore, beatitudine atarassica o cose de genere bensì proprio l’opposto, non passività ma “creare”, essere demiurgi si può dire; creare con la mente è appena il caso di rimarcare che non sia creare ex nihilo (ma in effetti nessuno degli dèi dei testi sacri crea ex nihilo), invece è un “inter-agire” nel Kárman fattivamente mediante la viveka discriminante, è “ontologicamente” far-essere le possibilità che si vogliono far essere a condizione che possano essere, è un focalizzare la luminosità nelle possibilità come ora un far risplendere ora un trarre dalla penombra; il creare non significa ottenere necessariamente, almeno nel livello intermedio del Tantra, ma appunto ciò è implicito nel dire che l’ātman è il Brahman. L’aspetto difficile da rendere efficacemente con le parole è che questo creare pertiene solamente all’ātman, non all’io: la vita di ciascuno è mutatis mutandis un cogliere opportunità che il caso offre, ma appunto il “creare” dello yogī non è ciò, è bensì un agire spontaneo contemporaneamente intenzionale e inconsapevole — e per nulla si deve intendere che intenzionale sia l’atto e inconsapevoli le sue conseguenze, semmai è paradossalmente il contrario. In effetti la nozione che più propriamente descrive la condizione dello yogī è quella profetica: il “creare con la mente” non è riducibile al pensiero discorsivo, se si deve usare una parola per descriverlo asintoticamente, allora la parola è profezia. Profezia è parola che non compare nei Tantra, semplicemente perché sarebbe superflua: l’ātman è il Brahman, la coscienza individuale è la coscienza universale, ovvero è dire, come dicono i Tantra spessissimo, che Kuṇḍali è la dea del linguaggio, questo il suo epiteto princeps. Profezia significa infatti etimologicamente “parlare in vece di” (in greco pro-phēmi): i neviìm dell’Antico Testamento non predicono il futuro ma “semplicemente” attraverso di loro parla YHWH, come infatti il primo e più importante dei profeti ebraici è Moshè, colui attraverso il quale YHWH creò il popolo di Israel, senza che Moshè mai abbia preannunciato ex nihilo eventi che sarebbero accaduti nel futuro (la nozione di profeta come predittore del futuro fu creata poi dai dotti cristiani allo scopo di individuare nei libri ebraici un annunzio della venuta del Cristo, e questa idea si è sedimentata nel lessico comune), e la Qabbalah profetica di Abulafia è tale perché all’evento dell’espandersi della luce interna alla mente segue l’essere animato dal Divino, non il vedere fatti futuri; ed allo stesso modo i profeti greci arcaici, come Ferecide, non è che dessero visioni del futuro per ispirazione o intuizione, bensì essi conoscevano le cause “del passato” e quindi “il presente” e di conseguenza dicevano come si sarebbe svolto “il futuro”. Il “creare con la mente” è profezia in quanto è l’essere strumenti della Coscienza superiore, il fatto che essa includa in sé tanto il cosiddetto passato quanto il cosiddetto futuro fa parte della sua essenza: il Brahman è appunto “il tutto”, i limiti di spazio e di tempo sono fantasmi creati dalla rappresentazione, e l’ātman è il Brahman. Se i Tantra e il Vedanta non impiegano la parola profezia o un suo equivalente, è perché sarebbe un pleonasmo: se l’ātman è la Coscienza superiore, non ha senso precisare che essa includa eventi che pertengono a quello che ordinariamente si dice il futuro. Il creare con la mente è profetico perché è un agire dal di fuori dai tre tempi, non è un pianificare né un manipolare, per ciò si deve dire che è tanto intenzionale quanto inconsapevole, perché se si analizza questo stato di coscienza così si deve dire. Il linguaggio di cui Kuṇḍali è la dea è questo, è il linguaggio preteoretico dispiegato nella sua potenza creatrice, come la Śakti è la potenza di Śiva, non è il parlare argutamente o visionariamente; il linguaggio che crea è la mente nell’ātman, non un dire o un pensare che come tali essendo immateriali non possono ovviamente creare nulla.

Ciò i testi lo dicono esplicitamente, in termini che sono “rivelati” in quanto sgorganti da individui che anche sono l’ātman, se paiono non comprensibili è perché chi li legge vi legge non più di cosa già sa, ma i termini “rivelati” sono certamente più adeguati che qualsivoglia loro illustrazione analitica. Così ad esempio “grande perfezione” è il significato letterale della parola Dzogchen, il quale è il livello ulteriore al Tantra in quanto integra la perfezione del creare, laddove līlā è termine proprio della condizione degli avatāra, da Kṛṣṇa a Śrī Anandamayi Ma: lo Dzogchen tratta per lo più di come indirizzare a raggiungere le condizioni superiori, mentre nel līlā le si è da sempre, ma si tratta in entrambi i casi di variazioni dello stato naturale. Altre volte i testi dicono il compimento dello “stato intermedio del Tantra” in modo indiretto o ironico, come lo yogī che meditava recitando mantra sul mālā e a un certo momento gettò il mālā e se ne andò. Tutto quanto sopra porta qua, e se l’arrivarci è stato disperante invece che istantaneo, è perché appunto si è come si è; questa è la base dello yoga puro — lo yajña rigvedico è privo di “cesure” interne, si può dire così, gli inni dei Ṛṣi non danno cenno di distinguere fasi in senso sostanziale, perché il vedere fasi dipende già solo dal muovere dagli schemi falsanti della rappresentazione.

Tentando di calare tutto ciò in termini filosofici correnti, si può dire così: la realtà è anche creata attraverso il re-interpretare il passato e il pre-interpretare il futuro, in una sorta di ermeneutica ontologica (così pare si possa definire la migliore esegesi di Nietzsche e Heidegger quale la descrive Vattimo, da entro i limiti della rappresentazione), o poietica. Ma una tale definizione, se intesa appunto come filosofica cioè concettuale, sarebbe carente in quanto puramente duale, meccanicistica e non spontanea, perché in radice ignara della effettività della mente naturale anteriore al vagolare dei pensieri. 

I Tantra possono essere solo poesia o autosuggestione, ma i testi rivelati espongono la sostanza come “neuroplastica”: il realizzare di essere l’ātman fuori dal tempo è effetto cagionato dal mutare, istantaneo o indotto, delle capacità biologico-nervose. Forse il pregiudizio che separa il Sanātana dharma dal pensiero comune è che il secondo distingue il sistema nervoso in volontario e involontario e crede entrambi siano solo quali la ragione empirica e calcolante li conosce, mentre la Scienza Sacra dice ci siano altre dimensioni nervose ignote ai sensi e ai bisturi, o forse solo un vivere i sistemi nervosi non come enti rappresentati e talora rappresentanti ma secondo la loro propria intima natura — ciò e non altro sarebbero i Cakra: plessi di energie “nervose” (prāṇa) la cui attivazione da parte dell’ascesa di Kuṇḍali porta a quella emergenza di fisica luce interiore che a sua volta implica l’evoluzione della coscienza, indifferentemente definibile quale ritorno alla propria vera natura, superamento della rappresentazione o ascesa ai mondi superiori. Ciò è il fondo pratico, precondizione irrinunciabile, dei sistemi sapienziali operativi, c’è una parte puramente mentale e coscienziale ed una parte puramente nervosa e sperimentale, l’una specchio dell’altra ed anzi la stessa cosa, prāṇa. La conoscenza di questa condizione psico-organica, la vidyā, è quindi una conoscenza per padronanza effettiva: non serve leggere, accumulare nozioni, tessere concetti o bearsi di patetiche intuizioni, bensì si tratta di trasmutazione; o meglio certo anche il leggere è utile, ma dipende dal come si legge, ovvero dal cosa si veda letto: per riprendere la metafora delle ipostasi dell’ātman, sono proprio loro che vedono le “immagini” pre-teoretiche scritte in parole, i meccanismi psico-neurologici implicati e gli stati di coscienza oltre-egoici, e talora li presentano all’io mentre legge, talaltra acquisitile le svolgono e dipanano intessendo e ricollegandole con altre nelle loro camere oscure, per poi offrire alla mente “ologrammi” perfezionati — anche questo sarebbe il linguaggio di cui Kuṇḍali è dea. Questa sarebbe appunto la chiave maestra: l’encefalo si appropria di questi ologrammi e li “installa”, facendo sì che il contenuto neurologico degli stessi si attui. I Tantra non dicono alla lettera che il cervello possa esplicare in sé cosa di sé apprenda, ma questa è la sostanza del Tantra: neuroplastica generativa — secondo i testi occorre essere a ciò predisposti ovvero semplicemente si tratta solo di rendersi conto di cosa da sempre si è o si può essere, di come funziona o può funzionare la propria mente, e per realizzare ciò è però necessario che accada da sé o per effetto di mezzi forzosi (kuṇḍalinī-yoga ovvero gtum-mo) l’evento della luce mentale e susseguente esperienza della vacuità (quindi la parola neuroplastica è detta in analogia ai termini clinici correnti, anche perché non si tratta tanto di encefalo quanto di “energie sottili” localizzate anche nell’encefalo). Ridurre Upaniṣad e Tantra a filosofie (come fanno accademici occidentali, pandit induisti e filosofi buddhisti) significa evidentemente ignorare la loro sostanza, perché Upaniṣad e Tantra sono il superamento pratico ed effettivo della mente rappresentativa, mentre le filosofie sono espressioni della mente rappresentativa.

Se si resta sul piano filosofico analitico la nozione del creare la realtà attraverso l’interpretazione non può che ridursi, nel passare dai concetti alla prassi, al pensare un ego che teatranteggiando cerca capziosamente o rozzamente di nascondere o magniloquiare fatti del passato o di tramare per un futuro. Nella condizione tantrica invece si modifica la realtà a causa del fatto che si interagisce naturalmente in essa, perché si è essa, la mente (liberata) è Coscienza la realtà (autentica) è Coscienza. 

Il manipolare ermeneutico al fine di aprire prospettive sarebbe sempre e solo il vivere di un io in balia dei fatti e degli eventi del passato oggettuale, così come le alterazioni della realtà create dalle prospettive sarebbero eventi del presente e del futuro, sempre e solo porzioni di oggettività rispetto a un soggetto. Invece i Tantra dicono diverso, e questa è l’ermeneutica tantrica: non sei tu che interpreti fatti o atti, non eri stato tu nemmeno a compierli in effetti, si tratta bensì di tuoi io irradiati dall’ātman, dei quali tutti, vari io e ātman, l’io che ora si crede te stesso è talvolta consapevole, mentre per lo più “tu” sei una siffatta superiore consapevolezza che racchiude in sé tutti gli elementi sopra detti nei diversi loro rapporti e combinazioni, l’ātman appunto.

Questa visione tantrica è certo possibile inquadrarla come semplice patologia della mente oppure come genialità creativa se la si giudica secondo la rappresentazione, cioè secondo una catena logica che scaturisce dal presupporre comunque esistenti in sé in modo intrinseco l’io come totalità della mente, la oggettività dei fenomeni e il di essi scorrere nel tempo; le psicologie e le neuroscienze, così come le filosofie teoretiche anche le più spinte, tutte presuppongono questi due elementi, io e mondo, in sé sussistenti nel tempo. Ciò che dicono alcuni altri è che la rappresentazione è solo una modalità autoreferenziale la quale opera con il ridurre “tutto” ai propri limiti (se del caso obliterando i limiti in dogmi: che i pensieri immateriali sorgano dalla materia encefalica viola il nihil est sine ratione, fondamento di ogni certezza razionale), e questi pochi depongono che vi sia una modalità di effettività anteriore alla rappresentazione. Entrambi i punti di vista, rappresentativo e pre-rappresentativo, convenzionale ed esoterico, si proclamano scienza, cioè conoscenza empirica e ripetibile, ed entrambe le scienze sono infatti ripetibili ciascuna alle proprie condizioni. La differenza tra i due mondi è semmai che la scienza ordinaria non si fonda su esperienze dirette, bensì mediate: è la struttura biologico-cognitiva umana che fa da schermo tra ciò si che crede oggettivo e ciò si che crede la mente (ciò appunto significa il sōma sēma greco, che il corpo sia la tomba della mente), e la scienza moderna ovviamente crede, come ha sempre creduto, di conoscere a perfezione l’operare di codesti meccanismi che traducono segnali elettrico-meccanici in pensieri, e questa propriamente altro non è che la attualità della rappresentazione; il Sanātana dharma invece in ogni modo, da ogni angolo del mondo da millenni, sostiene che la struttura biologico-cognitiva della rappresentazione non solo sia evidentemente ingannevole in sé, non solo sia una autolimitazione posticcia generata dal contesto materiale, ma anche sostiene che questa autolimitazione possa essere nullificata attraverso la esperienza diretta ed immediata di quelle dimensioni energetiche o nervose che appunto la struttura biologico-cognitiva umana generata dalla rappresentazione ignora. Questa retrocessione dalla rappresentazione è detta essere uno scostamento da ciò che tutti credono essere, e chi lo ha non può sapere di averlo perché se la sua mente funziona in un certo modo non può certo costui sospettare che le menti di tutti gli altri funzionino in modo diverso — molti acclamati scrittori, così come i grandi filosofi, i grandi psicanalisti ed i geni della scienza e del calcolo, proprio al trascrivere sprazzi di coscienza profetica devono la loro fortuna, cioè per cenni di Kuṇḍali non intesi nella loro natura e quindi accettati supinamente come pensieri in cui ci si sia imbattuti per intuizione (la panacea dei poveri di spirito), riversati in ispirazioni o in calcoli more ratione. La retrocessione dalla rappresentazione è un modo esistenziale di dire la cosa; il modo tantrico di dire la stessa cosa è puramente pratico, il Tantra illustra la via diretta per cavalcare i cenni presagiti per cosa sono in sé, cioè smagliature nella rete della rappresentazione, apparire attuale di energie coscienziali, apparizione della viveka, principio di autoinstallazione dell’ātman, e su questa via sospesa tra il nulla e il tutto, dispiegando e lacerando le facoltà mentali con il solo ed unico faro della reiterazione dell’esperire, si può pervenire alla consapevolezza della natura della mente — non è il Tantra una via titanica, se per titanico si intende il forzare mente e corpo in vista di un obbiettivo, è semmai la via dell’assimilazione a un telos che si disvela, il superamento della natura umana ordinaria basata sulla separazione tra mente e corpo. La via tantrica appare come un circolo vizioso (per trovarsi fuori dalla rappresentazione occorre trovarsi fuori dalla rappresentazione), come circolo vizioso è la rappresentazione come sanno tutti coloro che se ne occupano: la differenza è che la rappresentazione è un circolo vizioso in sé, il Sanātana dharma è invece una tautologia che appare viziosa solo se la considera dal punto di vista della rappresentazione, cioè della struttura illusoria che costituisce proprio il velo da lacerare. 

L’ātman è il punto di vista il quale dice che non ci sono punti di vista; lo è fisicamente, non è un pensiero, questo dicono i Tantra — l’uomo occidentale suppone che cosa non conosca non esista, certo ciò è molto consolatorio, ma ciò ovviamente è un caso della autoreferenzialità in sé. Per l’uomo occidentale è implicito e ineludibile che non possa che esserci un punto di vista, e questa credenza manifesta l’operare appunto della struttura dell’io; e sempre incardinato sull’io sarebbe, se fosse possibile, lo sguardo da nessun luogo, perché appunto ci sarebbe un “chi vede”, ci sarebbero “cose da vedere” e ci sarebbero luoghi e spazio di tempo in cui vedere: questa non è una analisi capziosa, ma un mostrare che se non si esce dalla rappresentazione non si può essere nella vacuità ma appunto si resta assoggettati alle categorie dicotomiche create dalla rappresentazione stessa.

Negli yoga avanzati semplicemente non esiste il punto di vista, e non certo perché semplicemente ci si astragga dalle cose o le si veda dall’alto perché naturalmente questo sarebbe ancora un punto di vista seppur meno rozzo di quelli ordinari, ma perché l’ātman è visione che non necessita di vedere, è vidya, conoscibilità in sé senza che vi sia un io che vede e cose da vedere, questo vuole dire che l’ātman è il Brahman — con tutto ciò è chiaro che finché lo yogī è ancora nel corpo ha ancora, per lo meno nel livello intermedio del Tantra, qualcosa di analogo al punto di vista, ma questo è intriso dalle vedute dell’ātman, cioè non è solo il vedere dall’alto ma è il vedere attraverso l’ātman. L’ātman, in quanto far venir meno la rappresentazione e cioè facendo riconoscere lo yogī quale sé (ātman), crea la realtà, e ciò sostituisce il punto di vista con la “veduta”, si può dire così. Evidentemente ciò suona autocontraddittorio; chi crede che ciò che è dato come autocontraddittorio non esista o sia al più autosuggestione, è razionale che così ritenga (le petizioni di principio non sono irrazionali, bensì hanno ad oggetto un contenuto autoreferenziale che non significa nulla di effettivo se non una duplicazione di parole). L’io non può rendersi spontaneo, se l’io è l’io per definizione non può uscire da se stesso, non è in grado nemmeno di pensare di volerlo perché l’io è i pensieri e i pensieri non possono essere non-pensieri — è semplice corollario del principio di non contraddizione che è il fondamento che l’io riconosce come garanzia di sé: se credi di essere l’io sei l’io, per “essere Quello” devi “essere Quello”, finché si crede di pensarlo è appunto l’io che lo pensa cioè non “sei Quello” ma sei l’io.

Al livello intermedio del Tantra il creare la realtà con la mente non significa né far-essere-dal-nulla né disporre psicologicamente, quindi. Queste due categorie, rispettivamente puramente materialistica e puramente intenzionalistica, sono escluse — davvero a priori — dai requisiti stessi di accesso al Tantra: se non ci sono enti che sussistono in modo indipendente e se non esiste l’io, è ovvio che il creare la realtà con la mente non può significare che un io manipoli cose o pensieri altrui. Questa è, si ripete ancora una volta, la condizione pregiudiziale che gli yogīn pongono: finché la mente crede di essere l’io, vedrà e toccherà oggetti e potrà manipolarli sì, e potrà influenzare la psiche di altri, ma per mezzo degli arti del corpo e dei propri pensieri egoici, non altrimenti. In altre parole il “creare con la mente” tantrico non è pensabile dalla mente che rappresenti, men che meno dalla mente computazionale; è possibile certo che sia una fantasia (ovvero che sia solo idealizzare, pensare, vivere in mondi paralleli o credersi dèi), ma il livello plasticamente adamantino dell’intelletto dei Ṛṣi, yogīn, cabbalisti, adepti, alchimisti e filosofi naturali che da millenni ripetono le stesse identiche ed incomprensibili immagini è dato oggettivo sconcertante. 

Il creare con la mente del livello intermedio del Tantra, dunque, può dirsi in termini occidentali un’“ermeneutica” creatrice che come tale opera al di qua delle divisioni della realtà in soggetto, oggetto, spazio e scansioni temporali.

L’esposizione in termini contemporanei ed occidentali della condizione di consapevolezza di cui parlano i Tantra e schematizzata nel dire l’ātman è l’ātman più un io, è poi, si può dire, una psicanalisi tantrica. 

Ed allo stesso tempo questa consapevolezza coincide in parte con la consapevolezza del tutto (dove il genitivo è soggettivo più che oggettivo), e questa sarebbe una fisica tantrica. 

Da un punto di vista metafisico, quindi, si può dire che lo yogī sia contemporaneamente il soggetto, l’oggetto e l’interpretazione o la conoscenza. 

E nella prospettiva pratica, lo yogī naturalmente — (la frase è compiuta così, come il Tristan Akkord). 

Così dicono i Tantra, quello che si è descritto sopra in termini cha paiono allucinati è secondo i testi rivelati niente altro che la natura principiale della mente, ed è la cosa più semplice e spontanea che ci sia, così naturale che il pensarla già la deturpa irrimediabilmente; se viene descritta in termini arzigogolati e complessi è perché ogni parola deve rimuovere uno ad uno i tantissimi ostacoli che la rappresentazione ha creato e pone.

In questa condizione tantrica non esiste il tempo; o meglio il tempo esiste, finchè si è nel corpo si è sempre anche un io, ma non esistono le categorie di passato, presente e futuro. Ora non è possibile dimostrare l’inesistenza di una cosa che non esiste; il pensiero rappresentativo afferma come evidenza che esistano certe categorie, ma nel vivere tantrico non esistono. Se diverse sono le evidenze originarie (anche se occorre ribadire che quella tantrica non è propriamente una evidenza, essendo la nozione stessa di evidenza portato della rappresentazione) ogni obiezione che si voglia muovere ad una evidenza deve muovere da quella evidenza, non da un’altra, per cui l’asserzione della inesistenza delle scansioni temporali deve muovere entro la “logica” tantrica, perché per annichilire un sistema compreso dentro un sistema occorre dapprima perforare o rimuovere il sistema che lo comprende, così come non si può confutare la quantistica in base alla storia o alla botanica — ma ciò già lo notava Socrate nell’Eutifrone, il primo dialogo platonico, ad una questione si risponde entro i confini suoi propri. 

Orbene, i Tantra non operano secondo gli schemi che sono stati appena descritti, non vi si parla secondo scansioni assimilabili ad ermeneutica, psicologia, fisica, metafisica, prassi o temporalità: la descrizione analitica dei Tantra è una riduzione forzosa di un tutto entro arbitrarie forme stagne. 

Il mondo occidentale inizia con Omero, che nel libro primo dell’Iliade ne predetermina il destino: di Calcante l’indovino è detto conosca le cose che sono (ta eonta), le cose che saranno (ta essomena) e le cose che furono (ta pro eonta); è anche possibile che Omero per certi versi canti di una età antecedente all’attuale Kālī Yuga, ma accadde che proprio alla materialità intrinseca di queste parole restarono assoggettati coloro che vollero ridurre la realtà ai propri pensieri.

Nella condizione “fuori dai tre tempi”, invece, passato e presente e futuro sono coesistenti nella mente ante-rappresentativa, che li crea e modifica nella realtà fenomenica.

Antonio Viglino 

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